Facciamo luce sui deadstock
Cosa sono i deadstock
Se sei un minimo interessat* alla moda o alla sostenibilità (o a entrambe) avrai già sentito parlare dei deadstock, letteralmente SCORTA MORTA. Nell’ambito della moda quando si parla di deadstock ci si riferisce a:
- rimanenze
- tessuti inutilizzati
- “avanzi” di produzione
Ma anche ai tessuti leggermente difettati che non rispettano gli standard del brand.
Può capitare poi che un brand abbia fatto un ordine eccessivo di tessuto (over-buying) oppure che abbia cambiato idea all’ultimo sul colore (over-anticipation), o ancora che il colore finale non corrisponda alle aspettative. Capita anche che gli ordini vengano semplicemente cancellati.
In tutti questi casi cosa succede?
Ci sono due strade principali:
1. I tessuti vengono buttati via (e di conseguenza bruciati)
2. I tessuti vengono venduti
Ci sono ormai tantissime realtà – soprattutto medie e piccole – che scelgono di lavorare principalmente o interamente con tessuti deadstock per evitare che questi vengano gettati via. Questo gesto viene spesso comunicato dal brand stesso come scelta sostenibile: in fondo danno una nuova vita a un tessuto che altrimenti sarebbe finito in discarica e negli inceneritori.
Prima di vedere nel dettaglio questa associazione (deadstock = sostenibile), è importante specificare che alla base del problema non ci sono i deadstock ma la sovrapproduzione. “Sono 17 milioni le tonnellate di tessuti prodotte ogni anno nel mondo”: in questo articolo di LifeGate trovate qualche numero sconvolgente sull’eccessiva produzione di capi – che peggiora di anno in anno (anche grazie alla fast fashion).
Deadstock VS Available stock
Facendo le mie ricerche su internet sui deadstock, mi sono imbattuta anche nei cosiddetti AVAILABLE STOCK, mai sentiti? Letteralmente significa “scorta disponibile” e all’apparenza potrebbe sembrare la stessa cosa dei deadstock. In realtà molti preferiscono identificare questi “available stock” come le “rimanenze pianificate”. Ci sono infatti aziende che di proposito comprano tessuto in più per poi rivenderlo. Alcune lo dichiarano, altre no. Per scoprire se si tratta di available stock bisognerebbe andare a fondo con l’azienda e farle domande, ad esempio chiedere di vedere l’ordine fatto. Quante aziende lo mostrerebbero senza problemi? Io non vedo una vera e propria distinzione tra queste due tipologie ma per completezza nelle informazioni ve lo riporto.

Deadstock e sostenibilità
Sempre più brand e designer scelgono quindi di comprare tessuti deadstock che altrimenti andrebbero buttati via e bruciati: questa è sicuramente una scelta ammirevole, anche perché tanti di loro hanno davvero a cuore la questione ambientale. La causa etica e ambientale comincia davvero ad essere molto sentita anche nel campo della moda, anche grazie a clienti sempre più attenti e informati.
Vi ricordate cos’era successo nel 2018? Burberry aveva confessato di aver bruciato dei capi – per il valore di oltre 30 milioni di euro – solo perché ne aveva prodotti in eccesso. Non volendo “danneggiare la proprietà intellettuale” aveva preferito bruciarli piuttosto che rischiare che venissero svenduti (o che finissero in mano a persone che – a prezzo pieno – non si sarebbero potute permettere quei capi e che quindi avrebbero danneggiato l’immagine del brand).
Tuttavia, solo perché un brand sceglie tessuti deadstock questo non lo rende in automatico sostenibile. La questione, come sempre accade quando si parla di sostenibilità, è un po’ più complessa. Il problema di fondo rimane quello visto prima, ovvero la sovrapproduzione e purtroppo ormai sempre più aziende fanno acquisti eccessivi di tessuti perché sanno che tanto poi potranno rivenderli, perché di fatto esiste un mercato. In questo modo il circolo vizioso della sovrapproduzione continua a crescere, e così succede anche a quello dei rifiuti.
Oltre a questo poi, c’è un fattore importantissimo quando si parla di sostenibilità, ovvero la trasparenza (e la tracciabilità). Per quanto sia essenziale questo aspetto, in tantissimi campi è difficile da rispettare: e la moda non è da meno. Ad esempio, nel caso dei deadstock, le aziende non sono obbligate per legge a giustificare perché non vogliono il tessuto in eccedenza. Possono semplicemente gettarlo via.
Detto questo, sarebbe anche sbagliato pensare che tutt* i designer e le aziende che prediligono i deadstock lo facciano in cattiva fede, anzi. Credo davvero esistano brand in cui i deadstock rientrino nel piano di sostenibilità aziendale, tuttavia, questo non dovrebbe essere l’unico fattore per stabilire che tale azienda è sostenibile.
Pro e contro dei deadstock
PRO
- Si utilizzano tessuti che altrimenti verrebbero buttati via
- Impatto produttivo ridotto rispetto a tessuti ancora da produrre
- Non c’è un minimo d’ordine, possono essere acquistati in piccole quantità
- Permettono a designer, stilist* e piccole realtà di accedere a ottimi tessuti
- Unicità: spesso i capi realizzati sono pezzi unici
- Spesso hanno un prezzo vantaggioso
CONTRO
- Mancanza di trasparenza e tracciabilità sull’origine
- Possono incentivare la sovrapproduzione perché tanto c’è mercato
- Possono incentivare il greenwashing: solo perché si usano tessuti deadstock non significare essere automaticamente sostenibili
Quando i deadstock sono sostenibili?
Se hai letto fin qui capirai che è difficile stabilirlo in maniera arbitraria, tuttavia ci sono alcuni elementi che ci aiutano a orientarci. Ad esempio, se un’azienda dichiara apertamente di produrre in eccesso solo per rivendere i deadstock non è molto sostenibile, e nemmeno se un’azienda predilige tessuti altamente inquinanti o è nota per usare pratiche poco etiche verso i propri lavoratori.
Al contrario ci sono tante realtà lente che scelgono solo deadstock con grande cura e ricerca: ad esempio, c’è chi sceglie deadstock di tessuti già sostenibili. Qualcuno le definirebbe “mosche bianche” lo so, eppure esistono. In generale, è bene non focalizzarsi solo su questo aspetto per definire quanto è sostenibile un brand, andiamo alla ricerca di altri elementi.
Parliamone
E tu? Quanto conoscevi i deadstock?
Ti aspetto su: marta@gentilmenta.com