Greenwashing: cos'è e come riconoscerlo
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Greenwashing: cos’è e come riconoscerlo

Cominciamo dalle basi

Quante volte hai sentito parlare di greenwashing? Personalmente l’ho sentito nominare moltissimo negli ultimi anni, eppure – solo dopo aver capito davvero come inganna le persone – mi sono accorta che non se ne parla abbastanza. L’ho sentito nominare in svariati settori: dalla moda, alla cura della casa, alla gdo, a progetti e iniziative che, all’apparenza, sono nate per tutelare l’ambiente. Prima di vedere cos’è il greewashing e come riconoscerlo, partiamo da una definizione:

“Strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo”

Treccani

Ecco perché ne puoi aver sentito parlare in qualsiasi settore, perché può essere messo in atto da qualsiasi azienda, istituzione, ente, ma anche liber* professionist* che vuole ingannare il consumatore/cliente finale facendo credere che la sua attività/iniziativa sia sostenibile.

Esempio pratico

Un qualsiasi brand di moda (magari fast fashion) pubblicizza la sua ultima collezione come “green/sostenibile” solo perché alcuni capi sono stati realizzati in cotone biologico. Sempre per questo motivo, tale brand si promuove come brand etico e attento all’ambiente.

Chiave di lettura (alternativa e reale)

  • Un brand della fast fashion è altamente improbabile (per non dire impossibile) che sia sostenibile vista l’elevata quantità di collezioni che produce. Anche una a settimana. Ti sei mai chiest* che fine fanno tutti i vestiti invenduti? Se ancora non lo sai, te ne parlerò presto.
  • Non basta fare una piccola collezione in cotone biologico se poi il resto delle collezioni è fatto con materiali che non rispettano l’ambiente, ad esempio i materiali sintetici (che non solo rilasciano infinite microplastiche con i lavaggi, ma sono anche pensati per durare poco – ed essere sostituiti).
  • Solo perché una collezione è green, non vuol dire che lo sia tutto il brand, anzi.

Sulla base di questo esempio, ti lascio anche un articolo che mi ha fatto molto riflettere: “Milano, Primark apre in via Torino: moda green, 250 nuovi posti di lavoro e bagni all gender“.

Una sentenza importante

Finalmente il 25 novembre 2021 – per la prima volta – un giudice in Italia, a Gorizia, ha condannato un’azienda per greenwashing. Nella sentenza Alkantara-Miko, l’azienda Alkantara ha ottenuto che alla rivale Miko fosse proibito usare definizioni come “prima microfibra sostenibile e riciclabile”, “100% riciclabile”, “riduzione del consumo di energia e delle emissioni di CO2 dell’80%”, “amica dell’ambiente”, “scelta naturale” e “microfibra ecologica”. 

Come ha stanziato il tribunale infatti, “dichiarazioni ambientali ‘verdi’ devono essere chiare, veritiere, accurate e non fuorvianti, basate su dati scientifici presentati in modo comprensibile”. Questo perché sempre più aziende puntano a una comunicazione vaga e generica quando si tratta di dimostrare la propria sostenibilità.

Nel caso di Miko, e di altre numerosissime aziende, erano stati usati slogan e claim molto generici per manipolare il messaggio finale, facendo credere al consumatore che l’azienda e i suoi prodotti fossero realmente sostenibili.

Il ruolo del consumatore

Quello che è emerso, non solo dalla prima sentenza – che è comunque un monito di come l’attenzione alla (reale) sostenibilità sia arrivata anche nei tribunali – ma in generale dalla curiosità mostrata dai consumatori in merito, è che la consapevolezza sta piano piano crescendo.

Sempre nel 2021, è stato fatto anche uno studio dalla Commissione europea, guidato dall’Ipcen-Consumer protection and Enforcement Network, la rete internazionale per la tutela dei consumatori, insieme alle autorità nazionali di tutela dei consumatori: da questa ricerca, è emerso che il 42% dei siti di vendita online riportava informazioni ambientali ingannevoli, che nel 37% dei casi l’affermazione data al consumatore era vaga e generica, e nel 59% non c’erano prove a sostegno.

Altri esempi di greenwashing

  • Eni a Sanremo ha lanciato Plenitude, l’anima green dell’azienda. Di fatto però, il grosso degli investimenti di Eni resterà su gas e petrolio (combustibili fossili tra i principali responsabili della crisi climatica). Trovate un approfondimento sulla questione nel Comunicato Stampa di Greenpeace.
  • Nella moda, oltre a Primark citato prima, ci sono tantissimi brand di fast fashion che si dichiarano “attenti all’ambiente” e fanno campagne in cui si pubblicizzano come “sostenibili” o “consapevoli”, ma di fatto fanno uscire una collezione nuova a settimana, a prezzi bassissimi (ricorda che il prezzo è basso perché c’è qualcun* che sta pagando per noi): H&M, Zara (e il gruppo Inditex in generale), Boohoo, Asos… per citarne alcuni.
  • Se pensiamo all’acqua, ci sono tantissime aziende che si definiscono “amiche dell’ambiente”, pur non essendolo (e per questo sono anche state multate): San Benedetto, Ferrarelle e Sant’Anna.
  • Il gruppo Nestlè è stato accusato di greenwashing in tante, tantissime occasioni. Hai notato che i packaging delle loro linee “green” sono quasi sempre verdi? Nestlè lavora moltissimo con i paesi dell’America Latina ma non è mai chiara e trasparente in merito alle catene di approvvigionamento. Un caso?
  • Coca Coca Life, Calzedonia, Huggies Pure e Natural, Shell, Ikea… Potrei fare esempi all’infinito purtroppo.

Quali domande possiamo farci?

Il greenwashing esiste e le aziende continueranno a sfruttarlo a loro vantaggio finché possono è vero, ma noi consumatori, nel nostro piccolo, possiamo influenzare le richieste di mercato. Quali domande dobbiamo porci per (provare a) capire se stiamo per cadere nel tranello del greenwashing?

  • C’è scritto green/sostenibile/consapevole/amico dell’ambiente ecc: ma cosa è davvero green? Solo il packaging? Solo il materiale con cui è stato prodotto? Allora non è sostenibile.
  • Ha un packaging? Se lo ha, non lasciamoci ingannare dal colore verde o dalla carta riciclata, non bastano per far sì che un brand sia green 😉
  • Naturale è sinonimo di sostenibile? NO.
    Il cotone è naturale, ma considerando tutta l’acqua necessaria per la sua produzione non è sostenibile. Attent* quindi alle classiche magliette “100% cotone”. Sono fatte in fibre naturali ma non sono attente all’ambiente.
  • Perché costa così poco? Che si tratti di cibo o abbigliamento, chiedetevelo sempre. Qualcun* sta pagando per quel prezzo così basso.
  • Quante collezioni fa uscire questo brand? Sopra le 4 all’anno iniziamo ad approfondire come ci riesce.
  • Da dove proviene? Se proviene da molto lontano, capiamo come mai. Il più delle volte è per abbattere costi di produzione in maniera non etica.

Ci sono poi domande che definirei più “scomode” o complesse da approfondire, spesso non trovate le risposte esplicitate sui siti, ma si può sempre mandare una mail e chiedere:

  • Il brand ha delle certificazioni di sostenibilità? Quali?
  • In cosa investe il brand?
  • Prova a leggere (davvero) un’etichetta: conosci tutti gli ingredienti presenti? Al riguardo, più avanti, uscirà un articolo.

Ultimo consiglio

Dopo esserti post* almeno una di queste domande, visita il sito dell’azienda in questione e controlla qual è il loro impegno dichiarato. Sono trasparenti? È tutto verificato e tracciabile? Se ci sono degli obiettivi, sono verificabili?

Parliamone

E tu? Hai già sentito parlare di greenwashing? Sei mai cadut* in questo tranello?

Ti aspetto su marta@gentilmenta.com

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